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Roma, Cerezo: “Io e Falcao volevamo sempre vincere. De Rossi è un monumento”

“Incredibile l’affetto che ho ricevuto a Roma”

Toninho Cerezo è tornato tra le mura di Trigoria, questa volta per seguire il master di aspiranti allenatori organizzato dalla Uefa e poter prendere il patentino da allenatore. Ieri ha assistito alla lezione di Claudio Ranieri. Questa una sua lunga intervista rilasciata a Il Romanista.

Come è andata la lezione con Ranieri?
«Molto bene, lui ha tanta esperienza: ha girato parecchio e conosce molte culture calcistiche diverse».

Quindi la Roma è in buone mani?
«Sì, certo, ma la Roma lo è sempre stata. Il calcio è fatto così: si vince e si perde. È proprio questo il bello, no? Non esiste una ricetta pronta, altrimenti sarebbe troppo facile».

Come procede il Master da allenatore Uefa?
«Bene. Per lavorare qui in Europa e in Asia c’è bisogno del patentino, e questa è un’opportunità che ho avuto. Mi piace, ci sono un sacco di novità».

Che tipo di allenatore è Toninho Cerezo?
«Il mio calcio è allegria: non si può togliere la fantasia. Al giorno d’oggi è tutto programmato, scientifico: devi avere i difensori di un certo tipo, gli attacanti così, il volante cosà. Certo, ci vuole la preparazione atletica, ma a mio parere non ci si deve mai privare della creatività dei calciatori».

Altrimenti si perde la magia del calcio.
«Esatto. Tutto diventa meccanico, così».

A proposito: sei favorevole al Var?
«Sì, sì. È importante poter rivedere un episodio da rigore o un fuorigioco: è uno strumento che serve».

Torniamo a parlare di allenatori: il Barone Nils Liedholm.
«Grande, grandissimo. Amava giocare un calcio propositivo, sudamericano per certi versi. C’era molta creatività, la palla girava tanto… Ma la sua dote migliore era la gestione psicologica del gruppo: in tal senso è stato un precursore. Tu magari non giocavi la domenica, e il martedì lui veniva e ti diceva: “Bravo Cerezo, ma questa settimana devi fare ancora meglio!”».

Eriksson invece?
«Era molto diverso, aveva un altro modo di rapportarsi ai calciatori e di allenarli. Amava il pressing e la velocità, parlava pochissimo. Con Liedholm avevo un grande rapporto umano, Eriksson invece aveva un’altra cultura, un altro modo di lavorare».

A Roma sei stato tre anni, eppure l’amore dei tifosi nei tuoi confronti è ancora oggi enorme. Come te lo spieghi?
«Forse perché la Roma è stata come la mia prima ragazza in Europa. Il primo amore non si scorda mai, no? (ride, ndr) Sono arrivato dal Brasile, non conoscevo nulla, e sono finito in una città straordinaria come Roma, molto sudamericana nell’approccio al calcio. Tu magari perdevi una partita e i tifosi ti incontravano e ti dicevano: “Ma vaffanculo, ma vieni qua, prendiamoci un caffè!”. Io venivo dall’Atletico Mineiro, dove c’è più o meno lo stesso rapporto passionale con la torcida. Infatti mi sono trovato benissimo: avevo Liedholm che era un grandissimo motivatore, per non parlare di tutti i ragazzi che giocavano con me».

Come Falcao, per esempio.
«Io e Paulo avevamo la stessa mentalità: volevamo vincere, sempre con il piacere di giocare a calcio. Paulo era più tranquillo, aveva un carattere diverso dal mio: osservava sempre tutto. Io ero più estroverso».

A Roma ti sei levato delle belle soddisfazioni…
«Sì, ho vinto due Coppe Italia che hanno regalato grande felicità ai tifosi. Soprattutto la seconda, quando ho segnato nella finale contro la Samp. Ero appena entrato! Quella è stata una gioia enorme. Peccato per quella finale con il Liverpool…».

Che ricordi hai di quella sfida?
«Uno cerca sempre di ricordare i momenti belli, invece quelli brutti ti restano dentro ancora di più, chissà perché. Devo dire che la settimana precedente alla partita fu bellissima, davvero: la città e il mondo intero ci guardavano, giocavamo a casa nostra. Non potrò dimenticare mai i tifosi che, dopo la sconfitta, cantavano “Grazie Roma” (intona la canzone, ndr). È stata una cosa indimenticabile, da brividi».

A proposito di dolorose sconfitte: hai la sensazione, come dicono in tanti, che a Roma sia difficile vincere trofei?
«No, assolutamente: questa è una piazza bellissima dove giocare, e la città ti offre di tutto. Vincere e perdere fa parte del gioco: il calcio è così. In ogni anno della mia carriera, ho sempre raggiunto una finale: si vince e si perde, è così».

Che cosa significa giocare con la Curva Sud che ti incita?
«I tifosi sono la cosa più bella. In fondo, perché tu vuoi vincere? Per farli felici, per regalare loro allegria: il calcio è loro, sono loro a creare questo clima di entusiasmo e voglia di vincere. Il calore che ti regalano è pura emozione. Vai in campo per vincere, perché sai che loro ti chiedono questo. Purtroppo poi passa tutto in fretta…».

In che senso?
«Tutto si condensa in 90 minuti. Devi fare di tutto per regalare allegria ai tifosi».

Hai incontrato qualche ex compagno in questi giorni?
«Sì, certo! Due giorni fa ho visto Sebino Nela, poi mi è venuto a salutare Bruno Conti. Ho sentito anche Di Carlo, Pruzzo, Giannini e Chierico. Sentirli mi fa un piacere della Madonna! Io sono fatto così: sia a Roma sia a Genova, mi faccio lasciare il numero da tutti i miei ex compagni. Poi li chiamo, per sapere come stanno: “Ciao Principe Giannini! Come va?”. Gli rompo i coglioni ogni tanto! È il bello del calcio, no?».

Ti lascia emozioni, affetti, amicizie.
«Esatto. Quando sono venuto a Roma per il mio ingresso nella Hall of Fame, per esempio, ero talmente emozionato da non riuscire neanche a parlare. Praticamente ho pianto e basta! Tutto quell’affetto… Incredibile!».

Segui la Roma?
«Sì, non sempre a dire la verità, perché spesso sono in Brasile».

Quali giocatori della Roma attuale ti piacciono di più?
«Dzeko è una forza della natura. E poi c’è De Rossi…».

Che ne pensi di Daniele?
«È un patrimonio, un vero e proprio monumento».

Ora che si avvicina la fine della sua carriera, che consiglio ti senti di dargli?
«Di vivere questi anni intensamente, di goderseli fino alla fine. Poi vedrà cosa fare».

Magari può rimanere nella Roma con un’altra veste.
«Certo! Come Bruno Conti, o Totti: loro sono qui praticamente da sempre. Penso che anche lui rimarrà a Trigoria».

Credi che possa fare l’allenatore?
«Sì, certo. Sia lui sia Totti. Possono fare tutto: hanno giocato per oltre vent’anni, possono fare tranquillamente qualsiasi cosa nel mondo del calcio».

C’è, al giorno d’oggi, un calciatore che ti ricorda Cerezo?
«Non so, io ero un calciatore un po’ atipico: all’epoca in pochissimi giocavano come me. Ero veloce, avevo tecnica, visione di gioco e arrivavo nell’area avversaria: tutte cose che i volanti davanti alla difesa non facevano mai. Io invece ci riuscivo perché ero ben preparato fisicamente, avevo una buona tecnica e la fortuna di giocare in una grande squadra».

Del resto si gioca meglio con i grandi campioni.
«E certo! Se tu giochi con Bruno, Carletto Ancelotti, Paulo Roberto, Maldera e Di Bartolomei è tutto più facile».

Che rapporto avevi con Agostino?
«Ho difficoltà a parlarne, dico la verità. Gli volevo molto bene. Quando sono arrivato, ha accolto me e mia moglie, che all’epoca era incinta: ci ospitavano spesso, oppure sua moglie veniva a trovare la mia. Mi trovavo benissimo con lui: non parlava molto, ma era un ragazzo con un grande carattere».

Poi Ancelotti, Pruzzo, Maldera…
«Carletto all’epoca era un bambino, ma ha fatto tanta strada. Con Pruzzo è difficile ridere e scherzare: è un rompipalle! (ride, ndr)».

Toninho, il cuore di Dio è sempre giallorosso?
«Diciamo che non l’ho detta io questa frase. Ma quando senti sessantamila tifosi che parlano di Roma, vivono sempre di Roma e cantano… È come un ritmo, come una poesia: giallorosso è il cuore di Dio. Senti che musicalità? Giallorosso è il cuore di Dio».

Prima di salutarci, c’è un film italiano…
«(ridendo) Sì sì, lo conosco!».

C’è quella celebre battuta: “Chissà cosa fa Cerezo a Capodanno?”.
«Me lo chiedono sempre! Vacanze di Natale, no?».

Esatto. Vuoi dirci che cos’hai fatto lo scorso Capodanno?
«Sono stato a Porto Seguro, una località di mare in Brasile. La cosa incredibile è che i miei amici romanisti in questo periodo mi telefonano sempre: “Cerezo, dove stai? Cosa fai?” Questo è il bello del calcio e della Roma: anche a trent’anni di distanza, la gente ti ricorda e ti vuole bene. È una gioia che vale più di qualsiasi cosa. È tutto, no?».

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